L’educazione musicale nell’antica Grecia

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Allo stesso modo dei sacrifici agli dèi e degli esercizi atletici, i poeti greci consideravano la musica, e con essa il canto e la danza, fra le manifestazioni più alte di ogni comunità civile. Si può dire che tutti vi venissero, in qualche modo, a contatto; fino al V sec. a.C., inoltre, era relativamente elevato il numero delle persone in grado di suonare strumenti esse stesse, e non sempre era facile distinguere un dilettante da un musicista di professione; tale differenza divenne più sensibile con il declino della partecipazione individuale alla musica e con la tendenza a lasciarne l’esecuzione ai professionisti.

Gli strumenti musicali

La lira, la cetra

Rappresentazioni inerenti al tema dell’educazione musicale ci mostrano ragazzi alle prese con la lira, lo strumento normale dei non professionisti. Di costruzione più semplice e di sonorità ridotta rispetto a strumenti consimili, per esempio rispetto alla cetra, nelle arti figurative compare fra le mani di suonatori d’ogni sesso e ordine d’età in contesti di processioni e di simposi, in ambito domestico, in scene di corteggiamento oppure di carattere mitologico. Nell’inno omerico dedicato a Hermés, la lira è detta inventata dal dio e viene descritta accuratamente: “Tagliati nella giusta misura steli di canna, li infisse nel guscio della tartaruga, perforandone il dorso. Poi, con la sua accortezza, tese tutt’intorno una pelle di bue;fissò due bracci, li congiunse con una traversa, e tese sette corde di minugia di pecora, in armonia fra loro” (Inno omerico a Hermès, vv. 47-51, trad. F. Càssola) La cassa armonica dello strumento era dunque ricavata dal carapace di una tartaruga (da cui uno dei nomi greci dello strumento, chélys – sinonimi erano lyra, phòrmix, kitharís), su cui veniva tesa una pelle bovina; stando a Pausania (VIII 54,7), per la costruzione di lire erano considerate particolarmente adatte le tartarughe del monte Parthénion, in Argòlide (regione del Peloponneso) . I bracci potevano essere d’avorio o ricavati da corna d’animali, ma nella maggior parte dei casi si usava il legno; essi reggevano un ponte su cui si allineavano i piròli, destinati a trattenere le corde di budella di pecora (di norma sette, ma a volte anche meno, tutte di uguale lunghezza), le cui estremità erano fissate a una staffa applicata sulla cassa. Lo strumento poggiava contro il corpo dell’esecutore ed era tenuto in posizione da un nastro (telamón) passato intorno al polso sinistro. La mano destra si serviva del “plettro”, una lamina di legno, d’osso o di metallo, per trarre accordi sfiorando tutte le corde; le dita della mano sinistra pizzicavano invece una corda alla volta o modificavano il suono prodotto dal plettro, smorzando le corde o traendole indietro perché non venissero toccate da questo. Le fonti c’informano che almeno fino all’avanzato V sec. a.C. la lira, se combinata al canto, accompagnava la voce all’unisono. La cetra aveva invece una cassa armonica di legno ed era di costruzione più elaborata e, ovviamente, più costosa. La parte inferiore dei bracci si poneva sulla prosecuzione del contorno della cassa ed era leggermente ricurva, mentre la parte superiore, su cui s’impostava il “ponte”, appariva rettilinea. Gli elementi ricurvi spesso riconoscibili all’interno dei bracci nelle raffigurazioni vascolari, sono stati interpretati come meccanismi per regolare la tensione dei bracci dello strumento. Particolarmente la cetra del tipo normale, con la base della cassa squadrata, era quella usata dai musicisti di professione, che davano concerti o competevano alle Panatenee e in altre occasioni; oltre che, naturalmente, dal dio Apollo, patrono dei citaredi. Aristotele osserva che la cetra era strumento inadatto all’educazione musicale (Politica 1341 a 18), giacché troppo complesso era l’insieme delle norme tecniche che presiedevano a un suo uso musicalmente soddisfacente. Proprio all’occasione di un concerto può riportarsi la raffigurazione presente sullo stàmnos inv.4006 (non esposto), del Gruppo di Polygnotos.

L’aulós

L’aulós, correntemente tradotto ‘flauto’ – a torto, poiché lo strumento antico aveva più affinità con il moderno clarinetto o con l’oboe che con il flauto – era costituito da un fusto cilindrico di canna, d’osso, d’avorio, di legno o di metallo, aperto all’estremità e fornito di fori laterali; in esso s’inseriva l’imboccatura fornita di un’ancia, una linguetta la cui vibrazione produceva il suono (il particolare strutturale che, appunto, differenziava tale strumento dal flauto). Per solito venivano suonati contemporaneamente due aulói; le raffigurazioni d’età arcaica e classica mostrano aulói di lunghezza uguale, con le mani del suonatore poste alla stessa distanza, sicché si può immaginare che esistesse una stretta corrispondenza sia nella melodia che nei registri. I suonatori di aulós in special modo quelli di professione, portavano spesso una phorbeiá. Destinato a coadiuvare la pressione delle guance, questo accessorio era costituito da due cinghie di cuoio, passate la prima dietro al capo e davanti alla bocca, ove erano praticati uno o due fori per l’imboccatura (o le imboccature), l’altra al di sopra del capo. Quando non in uso, gli aulói venivano conservati in una borsa di pelle non conciata; le ance, data la loro delicatezza, venivano riposte in un’apposita custodia. Le fonti letterarie ci tramandano i nomi di aulói parthénioi, paidikói, kitharistérioi, teléioi e hypertelèioi; ma resta incerto se, come riportano autori tardi, essi accompagnassero, rispettivamente, danze di fanciulle, il canto di ragazzi, la musica della cetra, peana e cori maschili. E ancora, risulta da autori antichi che nelle feste nuziali gli aulói suonassero con intervalli di un’ottava; all’unisono invece, stando a Pollùce, nel simposio. Filòstrato asserisce che un aulete poteva suscitare con il proprio strumento una vasta gamma di emozioni negli ascoltatori.